Le alterazioni dell’ecosistema: domande frequenti

Le alterazioni dell’ecosistema: domande frequenti

Qui di seguito figurano alcune domande che vengono poste con una certa frequenza in relazione al testo Le alterazioni dell'ecosistema. Questa pagina presenta una versione ridotta; il testo completo e aggiornato è disponibile nella versione Kindle.

È vero che ci rimangono pochi anni prima della fine? Rischiamo l'estinzione?

L’essere umano ha da sempre profetizzato la propria fine, si tratta verosimilmente di un fatto culturale indipendente da metriche oggettive. Storicamente, laddove l’uomo usciva dalle aree di confort, tendeva ad aspettarsi il peggio, immaginava la sua fine o quella del mondo intero. Non per nulla le vecchie mappe geografiche rappresentano spesso, lungo i confini, un’indicazione piuttosto chiara: hic sunt leones o anche hic sunt dracones.

Allo stato attuale dire che siamo sull’orlo dell’estinzione è un’affermazione avventata e priva di fondamento, soprattutto alla luce delle macro-tendenze (crescita della popolazione e della speranza di vita per esempio). Come affermano alcuni ricercatori, potrebbe essere vero anche il contrario, ovvero che l’uomo è in grado di struttare le proprie capacità d’adattamento e le tecnologie per evitare un evento che normalmente avrebbe portato all’estinzione della specie (vedi ad esempio Juan Enriquez, https://www.ted.com/talks/juan_enriquez_we_can_reprogram_life_how_to_do_it_wisely e Lauren Sallan, https://www.ted.com/talks/lauren_sallan_how_to_win_at_evolution_and_survive_a_mass_extinction).

I giornali sono una buona fonte d’informazione scientifica?

In generale no. Possono esservi degli approfondimenti ben documentati e completi, ma in principio l’informazione che passa dai quotidiani è tendenzialmente parziale e costruita in modo da creare i cosiddetti titoli tira-click. Questo si traduce con un’esposizione dei contenuti orientata alle tesi forti e atipiche, tralasciando aspetti che possono essere centrali nella ricerca originaria. Spesso gli studi citati non vengono neppure contestualizzati, tanto che non si può sapere se sono elaborati da istituti autonomi o se si tratta di ricerche che almeno in parte sono partite da contesti che possono essere condizionanti per i risultati stessi (gruppi privati, ONG, istituti accademici, enti pubblici, ecc.).

Dobbiamo agire subito?

Si e no. Il principio d'urgenza è da applicare laddove è necessario. Dire che dobbiamo agire subito o che la politica ambientale o climatica è sull'orlo del baratro, promuove una visione che comporta dei rischi. Da un lato tende a occultare gli evidenti passi in avanti e i risultati concreti ottenuti negli ultimi 40 anni. Soprattutto, impedisce la pianificazione efficace dei prossimi interventi. Se tutto è regolato dal principio d'urgenza, il rischio è infatti di non identificare quei settori dove l'urgenza è reale e importante.

Dobbiamo cambiare il mondo?

Come nella domanda precedente bisogna essere consapevoli che la politica ambientale, negli ultimi decenni, ha raggiunto risultati positivi. Le criticità evidentemente non mancano, ma un cambiamento radicale non è una soluzione particolarmente efficace o indicata, anche per i possibili impatti sociali che questa potrebbe comportare. Più che cambiare, dobbiamo migliorare e ottimizzare la gestione delle risorse naturali.

In generale i dati sono sicuri?

Gran parte degli studi condotti sui temi toccati in questo testo si affidano ai metodi quantitativi, rilevati con metodi solitamente dichiarati e replicabili. È chiaro che vi sono ricerche che possono essere influenzate da fattori esterni o da bias dei ricercatori stessi. Può essere utile verificare chi sono i promotori delle indagini (istituto accademico, ONG, governo, ecc.) e quali scelte metodologiche hanno adottato. Spesso subentrano tecniche di analisi statistica che possono di fatti essere utilizzate per argomentare in favore di una tesi (vedi domanda successiva).

I disastri ambientali stanno aumentando?

Spesso nei media si trovano numeri e grafici che attestano un netto aumento dei disastri naturali o delle spese per le assicurazioni legate agli eventi climatici. Statisticamente sono dati da prendere con una certa cautela, visto che la crescita non è necessariamente legata all’aumento della frequenza o dell’intensità degli eventi naturali. Questi dati nascondono infatti altri fattori (dark data) come la forte crescita demografica dell’ultimo secolo, il drastico aumento di superfici edificate (urbanizzazione) e dei rispettivi riflussi delle acque, cosi come il forte incremento complessivo del valore assicurato a livello di patrimonio costruito.

Altre variabili danno infatti indicazioni opposte, come ad esempio la media dei morti causati da disastri naturali, fortemente calata nel corso dell’ultimo secolo (un dato significativo alla luce della crescita demografica). Anche in questo caso è però difficile stabilire correlazioni dirette: si tratta infatti di un risultato positivo a cui hanno concorso numerosi fattori (sistemi di prevenzione e di intervento, consolidamento delle strutture, ecc.).

La salute dell’uomo è in pericolo? I casi di tumore stanno aumentando a causa delle nostre azioni?

In base alle tendenze rilevate dai principali indicatori, la salute dell’uomo non è in pericolo, al contrario, la speranza di vita media non ha fatto che allungarsi.

Come nel caso delle specie in via d’estinzione, anche nel caso del numero di tumori siamo confrontati con un problema legato alla popolazione di riferimento. L’aumento demografico e l’accesso alle cure da parte di una fetta sempre maggiore della popolazione umana ha certamente causato un aumento significativo dei casi registrati. Va inoltre tenuto in considerazione che lo sviluppo tecnologico ha permesso di identificare meglio le diverse casistiche tumorali.

Oltre alla crescita demografica, con l’allungamento della speranza di vita si creano maggiori possibilità per sviluppare un caso tumorale nel corso della vita.

Come in altri temi, si fa leva spesso sulla paura per catalizzare il cambiamento. È una buona soluzione?

La paura è una strategia che funziona molto bene sul corto termine, ma che rischia di essere controproducente sulle altre scale temporali. Agganciare le politiche ambientali al tema “riscaldamento globale” può essere rischioso: come già avvenuto in passato i cambiamenti possono sopraggiungere in modo inaspettato nei sistemi complessi che regolano l'autopoiesi terrestre. E se il clima iniziasse a dare segni contrastanti, che conseguenze ci sarebbero sulle politiche e sull'opinione pubblica, abituate a una narrativa costruita su previsioni date per certe? Sul lungo termine è meglio lavorare concentrandosi su una gestione seria e fattualmente sostenibile delle risorse, in modo da poter influire conseguentemente sulle alterazioni dei sistemi.

I cambiamenti climatici esistono veramente?

Tra le poche certezze che possiamo rilevare, una è proprio questa: i cambiamenti climatici esistono, e chi nega questo si pone sullo stesso livello dei terrapiattisti. I cambiamenti nei sistemi climatici sono sempre esistiti, lenti o rapidi, dovuti a fattori interni come pure esterni. Il problema che si pone oggi è sapere se e in che misura i cambiamenti climatici in atto sono influenzati dalle attività umane.

Cambiamento è sinonimo di peggioramento?

Evidentemente la comunicazione che va per la maggiore evidenzia i potenziali impatti catastrofici del cambiamento: è una dinamica, questa, comune ad altri settori e per certi versi ostaggio del modello "good news = no news". La realtà è meno schematica: i cambiamenti si declinano infatti con intensità e frequenze disomogenee. Questo significa che in alcune aree del mondo i cambiamenti saranno impercettibili, in altre avranno impatti positivi e in altre ancora negativi.

Possiamo parlare di Inferno climatico o di Cataclisma ambientale?

Difficile giustificare l’adozione di visioni estreme, perlomeno nell’ambito di testi di ricerca o con velleità scientifiche. Meglio confinare simili descrizioni a film e libri post-apocalittici.

I dati sul riscaldamento globale sono sicuri?

La comunità scientifica sembra essere in gran parte concorde: siamo confrontati con il riscaldamento globale del clima. Va comunque rilevato che quello climatico è un sistema complesso, dotato di resilienza e autopoietico. In quest’ottica i dati rilevati oggi possono servire per ottimizzare le politiche pubbliche settoriali. Per contro rimane problematica l’interpolazione verso il futuro, come già visto in molte previsioni promosse in passato. Vi è infine meno certezza sul grado di responsabilità delle attività antropiche su questa tendenza: da chi la ritiene limitata, a chi la reputa totale.

I ghiacciai stanno sparendo?

Si, i ghiacciai stanno sparendo: è un’osservazione scientifica incontrovertibile. Le poche eccezioni non sembrano essere significative rispetto alla tendenza globale. Anche in questo caso il dato va contestualizzato: scegliendo scale temporali diverse questo calo assume valenze differenti. In epoche passate, i ghiacciai potevano essere del tutto assenti o ricoprire ampie superfici delle terre emerse: questo significa che non vi è una condizione di equilibrio ideale. Il tema soggiacente riguarda il ruolo dell’uomo nell’ultimo calo registrato: nullo, limitato o assoluto? Una domanda a cui risulta difficile rispondere in modo univoco.

I ghiacciai stanno sparendo per colpa dell'uomo?

L'ultimo periodo glaciale, la glaciazione Würm, è terminato all'incirca tra il 16’000 e il 14’000 a.C. e aveva preso avvio circa 115’000 anni fa. Durante questa glaciazione, vasti tratti del Canada, dell'Europa settentrionale e della Russia furono coperti da immense calotte di ghiaccio.

A causa della formazione di queste calotte glaciali, una grande quantità d'acqua veniva sottratta dagli oceani. Questo fenomeno ha portato a una notevole riduzione del livello del mare, di circa 120 metri rispetto ai livelli attuali. Parallelamente, il clima si è rivelato generalmente più freddo e più secco rispetto ad oggi. Si stima che le temperature medie fossero inferiori di 5-10°C nelle zone direttamente coperte dai ghiacciai e di 4-5°C nelle regioni tropicali. Queste condizioni climatiche hanno determinato profonde trasformazioni nella flora e nella fauna. Molti animali, come i mammut, i leoni delle caverne e i rinoceronti lanosi, hanno prosperato in questo clima freddo, mentre le foreste sono state largamente soppiantate da praterie e tundra in molte regioni.

Sul continente europeo, durante il picco dell'ultima glaciazione, una vasta porzione dei territori settentrionale era coperta dai ghiacciai. Paesi come la Gran Bretagna, l'Irlanda, la Scandinavia e parti della Germania, Polonia e Russia erano immersi sotto spesse calotte di ghiaccio. Questo avanzamento glaciale ha lasciato un segno indelebile sul paesaggio europeo: vaste valli, laghi e altre caratteristiche geografiche, soprattutto nella regione alpina e scandinava, sono il risultato diretto dell'azione erosiva dei ghiacciai.

L'epilogo di questa glaciazione ha segnato l'inizio di un periodo interglaciale, l'Olocene, durante il quale abbiamo assistito a un clima più mite e stabile, creando le condizioni ideali per lo sviluppo delle civiltà umane come le conosciamo oggi.

Contestualizzato così risulta difficile sostenere le tesi che attribuiscono all’azione umana lo scioglimento dei ghiacciai. È una tendenza che prosegue da decine di millenni; la crescita delle attività umane hanno verosimilmente contribuito ad accelerare e rinforzare questi processi.

Lo sviluppo sostenibile è sinonimo di sviluppo ecologico?

In molte ricerche l’imperativo della sostenibilità è focalizzato sulla componente ecologica. Nella percezione di alcuni autori, economia e società sono vertici marginali. È bene sottolineare che lo sviluppo sostenibile ambisce a costruire una comunità umana che vive e lavora dignitosamente. In sintesi, dunque, non sono sinonimi: sostenibile è anche ecologico, ma non solo. Non sono dunque sinonimi.

Che rilevanza dare alla scelta di limitare l’utilizzo delle cannucce?

La cannuccia di plastica, dopo diversi decenni d’utilizzo pervasivo, ha vissuto negli ultimi anni un forte ridimensionamento nel contesto più ampio della lotta alle plastiche. Tralasciando le questioni economiche e sociali di questo rapido cambiamento, ci si può chiedere quanto sia effettivamente rilevante questo prodotto in un’ottica di impatto ambientale. Leggendo gli articoli apparsi sui media, si apprende che siamo in presenza di una quantità enorme di cannuccie: 1.6 cannucce a testa al giorno negli USA, un valore simile per l’Europa. Si tratta di stime che probabilmente sopravvalutano il consumo, ma che danno la possibilità di quantificare a grandi linee la produzione. Sappiamo che una cannuccia pesa in media 0.4 grammi e –volendo esagerare- possiamo stimare una produzione annua globale di 1'153’000 tonnellate di plastica (popolazione 7.9 miliardi, 1 cannuccia a testa al giorno). Nel contesto della produzione globale di plastica, stiamo parlando dello 0.25%: sono infatti 460'000'000 le tonnellate prodotte ogni anno (dato riferito al 2020, OECD Global Plastics Outlook Database). Considerando queste cifre, sostituire le cannucce (o non usarle affatto) è un gesto utile ma poco rilevante. Va comunque tenuto presente che –seppur limitato nella valenza quantitativa- il fenomeno può diventare maggiormente rilevante in considerazione della sua facile dispersione nell’ambiente (come sacchetti e bottigliette).

Dobbiamo rinunciare a volare per salvaguardare il pianeta? Gli aerei inquinano più di altri mezzi di trasporto?

Alcuni temi, come l’inquinamento causato dall’aviazione, sono particolarmente prediletti dai media e da alcune correnti di pensiero, retaggio di un’epoca in cui si accusavano le scie degli aerei di causare il raffreddamento globale. Oggi è possibile stimare con una relativa (non assoluta!) precisione l’impronta ecologica dei diversi mezzi di trasporto: va comunque tenuto conto che si tratta di un’analisi complessa che può determinare risultati molto diversi, in funzione dei parametri utilizzati (numero di passeggeri per mezzo, tipologia di mezzo, anno di riferimento, ecc.). Per esempio è possibile ottenere risultati estremi utilizzando come riferimento un’automobile di grossa cilindrata degli anni Ottanta del Novecento e ipotizzando uno o due passeggeri per tragitto. Per contro l’efficienza energetica di un veicolo privato elettrico, occupato da 4 persone può essere migliore di quella di un treno con un tasso d’occupazione medio. Per tornare al trasporto aereo è bene sottolineare che si tratta di un settore che complessivamente è responsabile del 2% del volume globale di emissioni e del 12% di quelle generate dal settore dei trasporti.

L’intensità o efficienza energetica dei trasporti è il concetto chiave. Quando sono l’unico passeggero, la mia Civic richiede, per gli spostamenti in città, circa 2 megajoule per passeggero-chilometro (MJ/pkm). Se aggiungiamo un altro passeggero la cifra scende a 1 MJ/pkm, un valore paragonabile a quello di un autobus mezzo vuoto. Gli aerei di linea sono sorprendentemente efficienti, solitamente necessitano di circa 2 MJ/pkm. Se il volo è pieno e il modello di aeroplano è uno dei più recenti, possono farcela con meno di 1,5 MJ/pkm. Certo, i trasporti pubblici su rotaia hanno prestazioni migliori: con un elevato numero di passeggeri, le metropolitane di buon livello necessitano di meno di 0,1 MJ/pkm. Persino a Tokyo, però, con la sua fitta rete di trasporti pubblici, la fermata più vicina può trovarsi a oltre un chilometro di distanza; troppi, per molte persone con mobilità ridotta.
Ma nessuno di questi mezzi di trasporto può eguagliare l’intensità energetica dei treni interurbani ad alta velocità. Questi di solito compiono tragitti che vanno dai 150 ai 600 chilometri. I modelli più vecchi dei pionieristici ‘treni proiettile’ giapponesi, gli Shinkansen (che significa ‘nuova linea diretta’), avevano un’intensità energetica intorno a 0,35 MJ/pkm; mentre i treni veloci più recenti - i francesi Tgv e i tedeschi Ice - necessitano normalmente di appena 0,2 MJ/pkm.

Smil, Vaclav. I numeri non mentono: brevi storie per capire il mondo. Torino: Einaudi, 2021.

Riassumendo:

 

Metro all’ora di punta

Treno intercity

Utilitaria (1 o 2 passeggeri)

Aereo di linea

Suv (1 o 2 passeggeri)

Energia MJ/pkm

0.1

0.2-0.4

1-2

1.5-2

3-5

In alcune pubblicazioni si fa riferimento al fatto che le emissioni degli aerei, avvenendo in altitudine, siano più dannose per l’ambiente. Questo fenomeno è associato in particolare ai gas responsabili del riscaldamento globale “effetto serra”. In realtà il nesso causale non è facile da dimostrare: sembra piuttosto il retaggio delle tesi legate al buco dell’ozono, dove si reputava che le emissioni in altitudine fossero più dannose di quelle emesse a bassa altitudine.

Analizzare l’impronta ecologica è difficile, soprattutto alla luce dei rapidi cambiamenti tecnologici e delle strutture energetiche diverse tra paesi: l’impatto in termini di emissioni dei mezzi mossi da energia elettrica è molto diverso se una nazione la produce col carbone (India) o col nucleare (Francia). Indubbiamente è poco costruttiva la narrazione promossa dalle grandi ONG ambientaliste basata su informazioni datate e articolate con fini non sempre trasparenti.

Allo stesso tempo non vengono prese in considerazione altre tematiche che determinano impatti significativi ma che difatto risultano essere impopolari e controproducenti nella raccolta di fondi. Un fenomeno in netta crescita negli ultimi decenni, poco studiato, riguarda ad esempio l’impronta ecologica degli animali domestici. Oppure quella dei telefoni cellulari: 1,75 i miliardi di questi oggetti venduti nel corso del 2020. Vaclav Smil, nel libro intitolato I numeri non mentono, pone proprio questo problema in un capitolo che porta un titolo esplicativo Fa più male all’ambiente la vostra automobile o il vostro telefono?

Dobbiamo vergognarci di volare?

Come visto in precedenza, in base ai dati sugli impatti non dobbiamo vergognarci di volare. In generale è meglio diffidare da chi vuole colpevolizzare o introdurre un pericolo sistema che giudica i comportamenti altrui. In tal caso non è in pericolo solo il settore dell'aviazione (responsabile, è bene ricordarlo, del 2% delle emissioni totali di gas a effetto serra), ma gran parte delle attività che ci definiscono come comunità umana.

Più strade uguale Più traffico?

In certe aree di pensiero, capita con una certa frequenza di sentire che più infrastrutture vengono costruite (strade, linee ferriviarie, ecc) più traffico queste generano. Da un punto di vista prettamente statistico è difficile sostenere questo principio di causalità: come in altri ambiti, sembra più opportuno chiamare in causa i fattori socio-demografici che stanno alla radice del problema. Va anche rilevato che la popolazione di riferimento è aumentata notevolemente: già solo questo fattore deve far riflettere sulle possibili ripercussioni di un blocco a livello di infrastrutture di supporto, che siano legate al traffico o ad altre redi di distribuzione (acqua, fognatura, elettricità). In sintesi, dunque, l'aumento demografico e l'aumento della frequenza degli spostamenti privati e profesionali rappresentano le variabili che determinano in gran parte l'impatto sulle infrastrutture di trasposto e sul traffico.

È vero che a causa dell’uomo di stanno estinguendo sempre più specie?

Hans Rosling, nel libro intitolato Factfulness, pone 13 domande per sensibilizzare su quanto siamo poco informati sull'evoluzione del mondo negli ultimi decenni. Una delle domande poste è questa: "Nel 1996 la tigre, il panda gigante e il rinoceronte nero erano considerati in via d’estinzione. Quante di queste tre specie si trovano oggi in pericolo ancora più grave?", indicando tre possibili risposte A: tutte e tre, B: una, C: nessuna. La risposta è proprio l'ultima. Come in altri settori, la percezione che il pubblico ha di questo tema è spesso condizionata da una comunicazione poco aggiornata e per certi versi faziosa.

Nella lista elaborata dalla International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (https://www.iucnredlist.org/resources/summary-statistics) figuravano nel 2021 un totale di 2.13 milioni di specie, che rappresentano solo una parte di quelle realmente esistenti (molte delle quali non sono ancora state classificate). Quante potrebbero essere complessivamente le specie animali? Nel 2011, la ricerca condotta da Camila Mora ha permesso di definire una stima affidabile: 8.7 milioni di specie sulla terra, con un margine d’incertezza di +/- 1.3 milioni.

Secondo la IUCN Red List negli ultimi cinque secoli, si sono estinte 900 specie (85 mammiferi, 159 uccelli, 35 anfibi e 80 pesci). Ma quali sono le tendenze degli ultimi anni? Allo stato 2021, la IUNC ha valutato circa 150'000 specie, corrispondenti al 7% di quelle elencate, valutandone il rischio d’estinzione (e dando precedenza a quei casi dove l’estinzione poteva essere più probabile):

(fonte: IUNC, 2021)

Sulla base dei lavori condotti dalla IUNC si può rispondere che le specie a rischio o in via d’estinzione stanno aumentando, ma è necessario tenere presente che aumenta nel contempo la popolazione di riferimento. In percentuale queste due variabili permettono di avere una percentuale in calo. In altre parole, il fatto che l’aumento di specie censite sia più marcato rispetto a quello delle specie a rischio è un dato positivo. Considerato il contesto ancora incerto, con il 93% di specie non valutate, è comunque opportuno valutare con prudenza queste dinamiche, siano esse catastrofiche o ottimistiche. 

Cosa sono le estinzioni di massa?

Nelle narrative promosse da alcune organizzazioni le estinzioni di massa sono quelle causate dalle attività umane. In realtà, queste si riferiscono nello specifico a cinque grandi estinzioni che sono state registrate nella storia del nostro pianeta. Nel corso delle epoche si è assistito a periodi in cui il tasso di estinzione è stato particolarmente elevato (almeno il 75% delle specie estinte in meno di due milioni di anni). Negli ultimi 500 milioni di anni si sono verificati 5 eventi particolarmente intensi:

Evento

Percentuale di specie estinte

Cause

Ordoviciano-Siluriano, 444 milioni d’anni fa

86%

Intensi periodi glaciali determinarono una fluttuazione importante dei livelli dei mari. Il secondo fattore che che causò l’estinsione di numerose specie è il susseguente riscaldamento delle condizioni climatiche e il presentarsi di eventi anossici globali (scarsità o assenza di ossigeno).

Evento Kellwasser, Devoniano superiore, 360 milioni d’anni fa

75%

La rapida crescita e diversificazione della copertura vegetale, causò un significativo raffreddamento del clima.

Estinzione di massa del Permiano–Triassico (P–Tr), 250 milioni d’anni fa

96%

L’intensa attività vulcanica in Siberia determinò il riscaldamento climatico, con un’elevata presenza di CO2 e H2S nell’atmosfera, acidità degli oceani, piogge acide e altre alterazioni chimiche nelle superfici terrestri e marine.

Estinzione di massa del Triassico-Giurassico, 200 milioni d’anni fa

80%

L’attività vulcanica sottomarina nella Provincia magmatica dell'Atlantico centrale (Central Atlantic Magmatic Province CAMP) causò un riscaldamento climatico e un drastico cambiamento nella composizione chimica degli oceani.

Estinzione di massa del Cretaceo, Evento K-T, 65 milioni d’anni fa

76%

Un impatto di un asteroide nello Yucatán, in Mexico, causò un cataclisma globale e un rapido raffreddamento del clima. Alcuni cambiamenti sembra fossero pre-esistenti, come l’intensa attività vulcanica e il sollevamento tettonico. L’estinzione di massa del Cretaceo è conosciuta per la scomparsa dei dinosauri.

I cosiddetti “Big Five” sono stati causati dalla combinazione di eventi rapidi e drammatici, implicando modifiche nei cicli climatici, come pure degli habitat terrestri e acquatici.

Gli ecosistemi si sviluppano linearmente?

In principio no, l'evoluzione di un ecosistema è meglio rappresentata dallo sviluppo sistemico, complesso, autopoietico. Nei modelli si tende a semplificare questo aspetto, privilegiando sviluppi lineari e il blocco di variabili. Un ulteriore aspetto, che su scale temporali più lunghe gioca un ruolo sottostimato, riguarda la casualità. Un’eruzione vulcanica, un terremoto, una perturbazione solare o un altro evento naturale maggiore, possono determinare cambiamenti tali da stravolgere i modelli di funzionamento precedenti.

Quali settori sono quelli che hanno impatti maggiori sugli ecosistemi?

In generale è difficile dare una risposta esclusiva, vista l’eterogeneità degli ecosistemi. Si può comunque ragionevolemente affermare che il settore che manifesta gli impatti più importanti è quello della produzione d’energia (elettricità, riscaldamento, trasporto): a lui si deve il 73.2 % delle emissioni complessive di gas a effetto serra. Su questo fronte le politiche pubbliche stanno intervenendo sostenendo le energie rinnovabili, in particolare il solare e l’eolico, come pure lo sviluppo di nuove tecnologie.

Ci sono città sostenibili?

In principio ci possono essere città più sostenibili di altre: con questo non si intende unicamente che siano in grado di preservare le diverse risorse naturali (aria, suolo, acqua), ma che lo facciano assicurando una vita dignitosa ed economicamente soddisfacente alle cittadine e ai cittadini residenti.

In diverse città dell’Europa del nord sono stati lanciati progetti partecipativi che hanno questi scopi. È chiaro che gli interventi non sono facili, tanto più in realtà urbane che si sono sviluppate sull’arco di secoli o di millenni e che hanno pertanto un metalobismo urbano specifico.

Diverso -ed interessante- è il caso delle città costruite proprio con l’idea d’ottimizzarne il metabolismo. Su questo fronte vi sono numerosi esempi di quartieri o di intere agglomerazioni costruite cercando di ottimizzare le sinergie tra i tre poli strategici dello sviluppo sostenibile. Tra i tanti esempi, Masdar City ad Abu Dhabi (www.masdarcity.ae), The Line in Arabia Saudita (www.neom.com) o The Sustainable City a Dubai (www.thesustainablecity.ae). Si tratta di una dinamica importante, soprattutto alla luce della crescita registrata dalla popolazione cittadina negli ultimi decenni, una tendenza che si stima continuerà anche negli anni a venire. Questo non significa che si tratti di progetti che non pongono problemi, soprattutto per le questioni d'ordine sociale. Si pensi ad esempio alla possibile creazione di quartieri "cluster" in cui i residenti si concentrano in base alle loro condizioni socio-economiche, con indici di segregazione alti.

La deforestazione è ancora in corso?

Si, la deforestazione è ancora in corso, anche se con minore intensità rispetto al passato. Il tasso di deforestazione ha raggiunto il suo picco nel corso degli anni Ottanta del Novecento, un decennio che ha comportato la perdita di 150 milioni di ettari di foresta (come la foresta amazzonica).

Da allora, numerosi fattori hanno concorso a un’inversione di marcia piuttosto marcata, passando a 78 milioni di ettari negli anni Novanta, 52 nel primo decennio del 2000 e 47 tra il 2010 e il 2020. Le foreste temperate registrano dal alcuni decenni un tasso positivo di riforestazione che si attesta sui 6 milioni di ettari nell’ultimo decennio: questa tendenza, chiamata forest transition point, permette di essere ottimisti anche sul futuro delle foreste pluviali.

 

Roland Hochstrasser, geografo

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